Dietro le spesse lenti da miope, lo
sguardo appare imperscrutabile; cercava, forse, di mettere a fuoco la
verità dell’arte di fronte alle pretese impossibili del
totalitarismo. Passionale, buffo, irascibile, introverso, fragile,
acido, riservato, tenace, Dmitrij Šostakovič fu ora celebrato come
amico del popolo e ora bollato come nemico del popolo dal regime di
Stalin: mercoledì 21 giugno, alle 21 al Teatro Rasi, la prima
assoluta di Gli occhiali di Šostakovič racconta tormenti,
eroismi e codardie di un gigante della musica divenuto simbolo del
lacerante rapporto tra artista e potere. Ispirandosi a un filone
narrativo-biografico quanto mai ricco, il giornalista e drammaturgo
Valerio Cappelli – anche alla regia di questo debutto – porta in
scena, come recita il sottotitolo, “onori e terrori di un
antieroe”, sviscerati dalla duttilità interpretativa di Moni
Ovadia. In scena anche la polistrumentista Giovanna Famulari, per
intrecciare musica dal vivo a registrazioni in una colonna sonora
della vita e della Storia. Una coproduzione di Ravenna Festival e
Festival Puccini in collaborazione con la Fondazione Teatro
dell’Opera di Roma, lo spettacolo sarà seguito dall’esecuzione
di brani tratti dai Ventiquattro preludi e fughe op. 87 di Šostakovič
ad opera del pianista Matteo Ramon Arevalos.
“Tutto, in lui, è contraddizione – sottolinea Valerio Cappelli nelle note di regia – La vita di Dmitrij Šostakovič è, essa stessa, un cortocircuito drammaturgico. Non era facile vivere, allora, certe notti e certe albe. Dormiva con la valigia aperta sotto il letto, temendo di essere arrestato da un momento all’altro, ed ebbe i funerali come un eroe di Stato. Šostakovič è il compositore più decorato e frainteso, più premiato e minacciato. (…) Ma non è mai stato un fantoccio dell’establishment: è stato, questo sì, profondamente sovietico e ha sempre assecondato il suo fiuto artistico in una continua sfida, senza paura di scrivere una musica inusuale. E i compromessi non tolgono nulla alla sua grandezza, la cui essenza è immaginifica. È come leggere un romanzo di Gogol’, tra il grottesco e il fantastico, è una continua metamorfosi, un moto perpetuo tra legni laceranti, ottoni aspri e sfarzosi, una vorticosa danza macabra, brutale, ora onirica ora misteriosa e ipnotica. È un montaggio di note che assemblano discontinuità stilistica, straniamenti, parodie e una strana energia mistica.”
La riflessione della XXXIV edizione di Ravenna Festival sulla duplice natura della “città”, emblema della comunità e della sua crisi, attraverso gli spunti offerti dal centenario calviniano e dal titolo Le città invisibili, si estende anche al parossismo della comunità, il suo farsi terreno fertile per totalitarismi e fanatismi. Gli occhiali di Šostakovič si inserisce perfettamente in questa sfaccettatura del tema portante, attraverso un racconto in presa diretta nel quale la voce del compositore è il filtro di un’epoca tragica. Senza la pretesa di una ricostruzione cronologica, ma basandosi su appunti, lettere, documenti e nutrendo l’immaginazione con memorie, saggi e romanzi, Valerio Cappelli ha creato un monologo-montaggio della vita e dell’arte di Šostakovič. Con la complicità di Moni Ovadia, ha combinato parole e musica a immagini: il ritratto di Stalin, uno spartito, vedute dell’assedio di Leningrado, la pagina di «Pravda» su cui si denunciava l’opera Lady Macbeth nel distretto di Mcensk come caos anziché musica…
La scelta di musiche emblematiche restituisce l’atmosfera dell’epoca…e non soltanto: si pensi alla Settima Sinfonia, quella “Leningrado” che ricorda la stoica resistenza all’invasione nazista, ma anche alle pagine che, pur senza mai descrivere, evocano non meno intensamente gli anni di tempesta tra guerre, purghe e paure. Quella di Šostakovič è la storia di un fragilissimo equilibrio; storia di un uomo che cammina su un filo sospeso sopra un abisso il cui nome è Stalin, il cui nome è Terrore. Là dove il potere si fonda sul culto della personalità e sul controllo implacabile della libertà di espressione, dove a centinaia di migliaia sono arrestati, giustiziati, deportati – dove si scompare nel nulla – Šostakovič sopravvive. Nella speranza, per dirla alla Julian Barnes, che la sua arte sappia resistere al rumore del tempo.
“Tutto, in lui, è contraddizione – sottolinea Valerio Cappelli nelle note di regia – La vita di Dmitrij Šostakovič è, essa stessa, un cortocircuito drammaturgico. Non era facile vivere, allora, certe notti e certe albe. Dormiva con la valigia aperta sotto il letto, temendo di essere arrestato da un momento all’altro, ed ebbe i funerali come un eroe di Stato. Šostakovič è il compositore più decorato e frainteso, più premiato e minacciato. (…) Ma non è mai stato un fantoccio dell’establishment: è stato, questo sì, profondamente sovietico e ha sempre assecondato il suo fiuto artistico in una continua sfida, senza paura di scrivere una musica inusuale. E i compromessi non tolgono nulla alla sua grandezza, la cui essenza è immaginifica. È come leggere un romanzo di Gogol’, tra il grottesco e il fantastico, è una continua metamorfosi, un moto perpetuo tra legni laceranti, ottoni aspri e sfarzosi, una vorticosa danza macabra, brutale, ora onirica ora misteriosa e ipnotica. È un montaggio di note che assemblano discontinuità stilistica, straniamenti, parodie e una strana energia mistica.”
La riflessione della XXXIV edizione di Ravenna Festival sulla duplice natura della “città”, emblema della comunità e della sua crisi, attraverso gli spunti offerti dal centenario calviniano e dal titolo Le città invisibili, si estende anche al parossismo della comunità, il suo farsi terreno fertile per totalitarismi e fanatismi. Gli occhiali di Šostakovič si inserisce perfettamente in questa sfaccettatura del tema portante, attraverso un racconto in presa diretta nel quale la voce del compositore è il filtro di un’epoca tragica. Senza la pretesa di una ricostruzione cronologica, ma basandosi su appunti, lettere, documenti e nutrendo l’immaginazione con memorie, saggi e romanzi, Valerio Cappelli ha creato un monologo-montaggio della vita e dell’arte di Šostakovič. Con la complicità di Moni Ovadia, ha combinato parole e musica a immagini: il ritratto di Stalin, uno spartito, vedute dell’assedio di Leningrado, la pagina di «Pravda» su cui si denunciava l’opera Lady Macbeth nel distretto di Mcensk come caos anziché musica…
La scelta di musiche emblematiche restituisce l’atmosfera dell’epoca…e non soltanto: si pensi alla Settima Sinfonia, quella “Leningrado” che ricorda la stoica resistenza all’invasione nazista, ma anche alle pagine che, pur senza mai descrivere, evocano non meno intensamente gli anni di tempesta tra guerre, purghe e paure. Quella di Šostakovič è la storia di un fragilissimo equilibrio; storia di un uomo che cammina su un filo sospeso sopra un abisso il cui nome è Stalin, il cui nome è Terrore. Là dove il potere si fonda sul culto della personalità e sul controllo implacabile della libertà di espressione, dove a centinaia di migliaia sono arrestati, giustiziati, deportati – dove si scompare nel nulla – Šostakovič sopravvive. Nella speranza, per dirla alla Julian Barnes, che la sua arte sappia resistere al rumore del tempo.
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