Non una storia d’amore, ma il tentativo di una donna di difendersi dai giochi del potere maschile, impugnandone le leggi a proprio vantaggio: è questa Turandot secondo il regista Giuseppe Frigeni, che del titolo pucciniano offre una lettura ispirata al rigore e all’essenzialità delle leggi estetiche e filosofiche della Cina, rifiutando facili esotismi. Venerdì 12 aprile alle 20.30 e domenica 14 aprile alle 15.30, Turandot corona la Stagione Opera 2024 del Teatro Alighieri di Ravenna, accogliendo il fortunato e ormai storico allestimento nato a Modena e riportato in scena in coproduzione con l’Alighieri e i teatri di Piacenza e Rimini. Nel ruolo protagonista c’è France Dariz, mentre Mikheil Sheshaberidze è il principe Calaf e Vittoria Yeo è Liù. Raffaele Feo veste i panni dell’imperatore Altoum e Giacomo Prestia quelli del re tartaro Timur, mentre Fabio Previati, Saverio Pugliese e Matteo Mezzaro sono Ping, Pang e Pong e Benjamin Cho un mandarino. Mentre Frigeni cura anche coreografia, scene e luci e Amélie Haas firma i costumi, sul podio dell’Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini c’è Marco Guidarini. Il Coro Lirico di Modena e il Coro del Teatro Municipale di Piacenza sono preparati da Corrado Casati e Paolo Gattolin è maestro del coro di voci bianche del Comunale di Modena.
“Turandot non è una storia d’amore, ma lo scacco di un’illusione amorosa nel ribaltamento dei giochi di potere, delle leggi di un potere arcaico, attraversato dal cinismo maschilista, l’ambizione e l’arroganza di Calaf – sottolinea Giuseppe Frigeni, che ha sovente collaborato con Bob Wilson – Turandot non è la carnefice leggendaria, ma una donna ferita nel proprio orgoglio, vittima di una violenza maschile atavica (…). Quando alla fine ella si concederà, ammaliata da Calaf, sarà sconfitta dalla sua ambizione di potere. Se la principessa incarna l’amore difensivo, Liù rappresenta quello sacrificale: è l’innocenza, l’umiltà, i gesti discreti. Sarà proprio lei a suggerire a Calaf le risposte che lo libereranno dalla minaccia di morte. Liù è la figura centrale, il cui suicidio è un atto d’amore di tale forza che farà calare un silenzio di morte. Una cesura drammaturgica che è anche un omaggio a Toscanini, che interruppe la prima dell’opera nel punto in cui Puccini interruppe la composizione.”
Per la produzione si è scelto il finale integrale che Franco Alfano compose dopo la morte di Puccini; un finale comunque vicino alle intenzioni del Maestro secondo il direttore Marco Guidarini, la cui carriera è iniziata nel ruolo di assistente al fianco di John Eliot Gardiner. “Sono convinto che Giacomo Puccini, a un certo punto del suo percorso artistico (e soprattutto con La Fanciulla del West e il Trittico) si sia posto il tema di pensare a una nuova pagina del teatro musicale italiano, pienamente immerso nella modernità. Non più opere in chiave ottocentesca, post veriste o post verdiane, quanto davvero una nuova chiave di scrittura. E Turandot è proprio questo”.
La regia di Frigeni non è una “cineseria”. Rifugge anzi ogni ridondanza esotica e orientaleggiante a favore dell’astrazione, con elementi scenici e visivi efficaci ma mai invadenti, capaci di integrare la dimensione musicale creata da Puccini – precursore delle avanguardie musicali del Novecento – piuttosto che illustrarla. Abbondano dunque le trasparenze e gli effetti di controluce, scorrimenti e slittamenti di piani e dimensioni, con una sobrietà essenziale di chiara ascendenza wilsoniana. La grande scalinata si schiude e richiude, ora palcoscenico della sfida amorosa tra Turandot e Calaf, ora antro nel quale si custodiscono le spoglie dei pretendenti già sconfitti e, più tardi, anche il corpo di Liù, anch’ella vittima del crudele gioco che Turandot si sente costretta a mettere in atto.
le foto sono di Rolando Paolo Guerzoni
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