venerdì 29 marzo 2024

Teatro Massimo. Prorogata al 30 aprile la mostra “Scenario Volti dello spettacolo” di Enzo Sellerio

 

E’ stata prorogata al 30 aprile la mostra fotografica “Scenario - Volti dello spettacolo” allestita nella Sala Pompeiana del Teatro Massimo di Palermo e dedicata al grande fotografo ed editore Enzo Sellerio di cui ricorre il centenario della nascita. Quaranta fotografie che raccontano il rapporto di Sellerio con il mondo dell’arte e dello spettacolo. Tra queste, scatti dal set del film Il Gattopardo, foto di scena dei celebri balletti di Milloss, coreografo del Teatro Massimo per due stagioni, o il ritratto di Igor Stravinskij nel suo concerto palermitano.
La  mostra, organizzata da Sellerio editore e curata da Sergio Troisi e Olivia Sellerio, è inclusa nell’itinerario delle visite guidate al Teatro Massimo senza alcun costo aggiuntivo ed è accessibile anche agli spettatori delle opere e dei concerti in programma a Teatro per tutto il mese di aprile.

Per chi volesse visitare esclusivamente la mostra, il biglietto d’ingresso ha un costo di 3 euro. Orari: tutti i giorni, dal lunedì alla domenica, dalle 9.00 alle 17.30 (ultimo ingresso alle ore 17.00).



L’incanto fragile del mondo 
Nel 1956 Enzo Sellerio tenne una mostra personale alla Galleria dell’Obelisco di Roma diretta da Irene Brin e Gaspero Del Corso, uno dei luoghi più vivaci della scena artistica e culturale della capitale. Sellerio aveva all’epoca 32 anni, le sue fotografie erano pubblicate su Il Mondo di Mario Pannunzio e un reportage di importanza fondamentale su Partinico, che documentava l’impegno sociale e politico di Danilo Dolci, era stato pubblicato nel 1955 col titolo «Borgo di Dio» sulla rivista Cinema Nuovo diretta da Guido Aristarco, contribuendo in modo determinante a diffondere una nuova iconografia della Sicilia che avrebbe fatto scuola. Gli incontri con artisti, scrittori e poeti favoriti dalla mostra romana costituirono probabilmente per Sellerio l’occasione per confrontarsi in modi più continui con il motivo del ritratto: anche nelle precedenti fotografie siciliane sono presenti dei ritratti, alcuni di rara intensità, ma in quel caso l’indagine del volto era comunque intrecciata al documento sociale o a quell’innesco narrativo – tutto può essere racconto, dipende dallo sguardo di chi osserva e narra – che rappresenta forse il tratto distintivo per eccellenza del mondo di Sellerio, mai invasivo o giudicante e anzi sempre con un senso di partecipazione cui la necessaria distanza permetteva l’incresparsi di una ironia lieve. Ma nel ritratto propriamente inteso le regole del gioco mutano: sia perché chi è ritratto ne è consapevole, e attende il momento dello scatto, sia perché il fotografo a sua volta aspetta che in quella partita altalenante di complicità e diffidenza si apra una breccia che consenta a chi guarda – il fotografo e noi stessi – di indovinare quel che dalla sua origine si chiede alla fotografia, un barlume sia pure provvisorio di verità. Quando poi chi è ritratto è un attore, un cantante o un musicista, comunque qualcuno abituato a fare del suo volto e del suo corpo uno strumento di espressione, questa partita si complica ulteriormente, in un gioco di specchi che ancora una volta – così è in queste immagini di Sellerio – mette in moto un racconto congetturale: nella relazione con la scena e con i suoi interpreti, che costituisce l’oggetto di questa mostra (quattordici fotografie sono inedite), il centro di attrazione è il ventaglio di possibilità piuttosto che la finzione. Così come quando Tino Buazzelli è colto al trucco nel camerino del Teatro Bellini: è il 1956, la mano impugna la matita, gli occhi già bistrati si osservano allo specchio ma noi possiamo vedere solo il riflesso della lampadina, e allora quello sguardo erra, e noi con lui, dall’obiettivo al volto dell’attore a quello che noi supponiamo essere la sua interiorità, e che inevitabilmente ci chiama in causa. 
Una costruzione sapiente e rigorosa di geometrie oblique, interrogative come non è dato di frequente nel corpus di Sellerio, e infatti di Lydia Alfonsi lo specchio ci restituisce per intero il viso e la mano che controlla l’acconciatura con un gesto aggraziato: nessuna inquietudine del doppio col profilo perduto dell’attrice in primo piano, composto in una linea chiusa ed elegante come il busto rinascimentale di una moderna Eleonora d’Aragona. Prevalgono invece altri accenti, la complicità sorniona di Accursio Di Leo sul palcoscenico del Teatro Massimo, la ritrosia sfuggente di Vittorio Gassman nel camerino del Teatro Biondo, la fissità imperturbabile di Virgil Thomson seduto al pianoforte incorniciato da un telaio di linee sbilenche, la solitudine pensierosa di Alida Valli che da dietro le quinte, la mano col fazzoletto portata alla bocca, sbircia verso la sala; e chissà se, sul set del «Gattopardo», sarà stato un gioco metaletterario a guidare lo scatto in cui Gioacchino Lanza Tomasi, nel romanzo modello per il personaggio di Tancredi, chiacchiera con un sorridente Burt Lancaster truccato da Principe di Lampedusa, un dialogo in cortocircuito tra realtà, finzione cinematografica e pagine del romanzo. A volte invece i toni sono più ironici e divertiti: il gesto con cui nella Parigi del 1962 Patachou (al secolo Henriette Ragon) si aggiusta la scollatura dell’abito, nero come il fondo così che volto e braccia sembrano ritagliati da una unica superficie priva di volume; l’aureola di raggi di pietra che si staglia dietro la testa di Alberto Sordi e che l’attore accentua volgendo gli occhi al cielo, siamo sul set a Villa Palagonia di «Mafioso» di Lattuada, è di nuovo il 1962; l’atteggiamento scanzonato e sorridente con cui Bruno Caruso, Thomas Schippers e Giancarlo Menotti posano dentro tre vasche da bagno durante il cantiere di restauro del Grand Hotel Villa Igiea nel 1957; e ancora l’incrocio delle diagonali di sguardi e braccia del duo pianistico Arthur Gold e Robert Fizdale – la mano sinistra di quest’ultimo risulta mossa come in un dipinto di Bacon – colti in azione al Teatro Biondo nel 1968. Igor Stravinskij, fotografato durante il suo concerto al Teatro Biondo del 21 novembre 1963, alza invece lo sguardo dalla partitura (ha inforcato due paia di occhiali), rivelando così il suo profilo severo e distante, simile a un idolo arcaico. In questa occasione Sellerio era a ridosso del palcoscenico e dell’orchestra, una posizione ravvicinata che si rivela quanto mai congeniale quando ottiene di assistere alle prove dei balletti di Aurel Milloss, il grande coreografo di origine ungherese che per due stagioni, nel 1958 e nel 1959, è direttore del corpo di ballo del Teatro Massimo, in una fase felicissima che portava a Palermo l’eredità dei balletti russi e la lezione della grande danza del Novecento. Di Milloss, Sellerio ha realizzato diversi ritratti, in uno è al lavoro nel laboratorio di sartoria del teatro, la sigaretta col bocchino tra le dita intrecciate, mentre sceglie – i begli occhi dal taglio orientale appena socchiusi – i colori per i costumi. In un breve testo del 2000 in occasione di una mostra dedicata a Milloss al Teatro Massimo, Sellerio ha scritto di questa sua predilezione per il balletto, specificando solo en passant come questa preferenza si accordasse alla danza contemporanea. Scettico nei confronti delle neoavanguardie, Sellerio amava invece della grande avventura della modernità novecentesca il senso del gioco intellettuale e dell’ironia, e poteva agevolmente ritrovarlo nei balletti di Milloss, come queste foto, alcune delle quali inedite, mostrano ampiamente riconducendo l’indagine sul movimento alle fonti della modernità europea, tra Degas, Picasso e Matisse: l’iterazione dei gesti, la rottura della simmetria, gli incastri e la fluidità dei corpi, l’irruzione in apparenza improvvisa del caso, la digressione del tempo in qualcosa di inatteso, sono tutti procedimenti di un codice comune con il suo linguaggio di fotografo, e con quel sentimento di sospensione – cosa è accaduto prima, cosa sta per accadere adesso – che condividiamo con Lisa Manet, sorpresa concentrata prima di entrare in scena, il volto di tre quarti illuminato nella penombra, e con la ballerina seduta da sola al centro del palcoscenico, probabilmente in una pausa durante le prove, mentre davanti a lei si muovono come in un girotondo le ombre di altri ballerini. In più (erano rare all’epoca registrazioni video che ne serbassero la memoria) la danza è la più effimera tra le arti, e nella bellezza caduca di questa filigrana di spazio e tempo Enzo Sellerio forse riconosceva l’incanto fragile del mondo, proprio del suo ricercare. 
Sergio Troisi

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