lunedì 28 ottobre 2019

Roma, Sala Santa Cecilia: Andrea Lucchesini inaugura la Stagione di musica da Camera con tutto Schumann


LUNEDÌ 28 OTTOBRE 2019
SALA SANTA CECILIA ORE 20.30




Andrea Lucchesini pianoforte

Robert Schumann

Papillons op. 2
Carnaval op. 9
Tre Romanze op. 28
Fantasia op. 17

Il concerto è trasmesso in diretta da Rai Radio Tre

Andrea Lucchesini inaugura la Stagione di musica da Camera con un programma tutto dedicato a Robert Schumann, autore le cui musiche attraversano l'intera stagione cameristica. Il programma comprende una serie di capolavori del compositore tedesco, opere nelle quali si rivela pienamente la sua poetica. I tratti salienti della personalità di Schumann - intrisi di irrazionalismo, mistica esaltazione, di irrequietezza, di forti ideali, dell'"anelito dell'infinito" (prendendo in prestito le parole del musicologo Massimo Mila) - sono anche quelli della sua musica che abbandonando gli schemi della tradizione classica si esprime in piccole forme e in brevi episodi traducendo nelle note un mondo interiore, una visione della realtà sempre animata da una fantasia esaltata, da una propensione alla meditazione interiore, da una psiche attraversata dai più diversi impulsi. Si entra così in un mondo fantastico abitato da svariate figure immaginarie e da appassionati slanci sentimentali, da zone d'ombra e da trionfali ottimistiche affermazioni. Cogliere questi aspetti e affrontare quelli delle difficoltà tecniche disseminate in queste pagine è compito per grandi pianisti e grandi interpreti categorie alle quali appartiene pienamente Andrea Lucchesini.

Dalle note di sala di Luca Ciammarughi
«È strano che nel momento in cui provo i sentimenti più intensi, non posso più essere poeta»: così scriveva Robert Schumann a soli diciassette anni. Tali parole sembrano riecheggiare quelle di Jean Paul Richter, che già all’epoca era uno dei suoi scrittori di riferimento: «Quando sono trasportato dall’emozione e non voglio reprimerla, non cerco parole, ma suoni». Come gli eroi (o più spesso, anti-eroi) del romanticismo di Hoffmann e Jean Paul, Schumann intraprende la via musicale perché solo la musica è interprete di quell’inesprimibile di fronte al quale la parola risulta insufficiente. La scelta non è facile né immediata: per lungo tempo, egli esita fra la letteratura e la musica. E, una volta imboccato il bivio, la letteratura rimarrà presente, larvata e in filigrana, anche nella musica. Si potrebbe quasi dire che, in Schumann, la musica sia costellata di rimandi all’universo verbale – a partire dal gioco combinatorio profondo che nasce dalla corrispondenza di lettere dell’alfabeto con note musicali – e che la letteratura sia vissuta in chiave musicale: non è un caso che egli affermi di aver appreso il contrappunto, ovvero l’intrecciarsi di voci indipendenti, dai romanzi di Jean Paul ancor più che dalle fughe di Bach.
È impossibile avvicinarsi a Schumann senza considerarne le contraddizioni profonde, che a lungo sono state lette come segni di uno squilibrio mentale manifestatosi precocemente, ma che in realtà sono innanzitutto il risultato di una coscienza lucidissima della propria molteplicità e della volontà di abbracciare l’esistente in tutta la sua complessità. Quando Schumann, nelle pagine della rivista da lui fondata e nelle sue composizioni, dà voce a due personaggi, il malinconico sognatore Eusebio (espressione di un mondo notturno, lunare) e l’appassionato Florestano (espressione estroversa di un universo diurno e della volontà di conquista di tale universo), egli schematizza in questa duplicità la complessità estrema della propria sfera interiore. Nella musica, i due personaggi finiscono spesso per sovrapporsi, dando luogo a una miriade di sfaccettature: si pensi al quinto numero del Carnaval op. 9, intitolato Florestan, al cui interno appare una citazione dai Papillons op. 2 legata alla maschera di Eusebio. A Schumann non interessa definire troppo nettamente tali maschere: il suo regno è l’ambiguità. Come il suo eroe letterario, Jean Paul, egli è volutamente criptico: rifiuta un mondo senza mistero. Pur disseminando la sua musica di segni e simboli che orientano l’immaginazione dell’ascoltatore, prende le distanze da un eccesso di coscienza: l’arte dei suoni è per lui una sorta di veggenza. Tale veggenza parte paradossalmente da un’accettazione dell’oscurità. Novalis, esploratore sublime del mondo notturno, indica la strada: «Padrone della Terra è colui che sonda gli abissi. Ai suoi occhi, nella notte dei baratri, appare luminoso un raggio eterno». La notte, nella sua indefinitezza, è la dimensione in cui tutto è permesso e possibile: il regno della Sehnsucht, non tanto come nostalgia rivolta al passato, ma come aspirazione all’inafferrabile. Il romantico non vuole vedere con esattezza, come faceva l’illuminista, ma credere. In cosa? Innanzitutto in una sorta di santità dell’amore e della natura.
Amore: il tema è cruciale per comprendere come sia potuta fiorire l’impressionante serie di capolavori pianistici schumanniani nel decennio fra il 1829 e il 1839, nonché la produzione liederistica successiva. L’humus culturale e il talento musicale non bastano a giustificare lo slancio creativo: la biografia è determinante. Schumann aveva avuto un’infanzia felice, al punto da essere soprannominato Lichterpunkt (“punto di luce”) dalla madre. Tale luminosità si fonde però ben presto a ineffabili tormenti, come egli stesso rivelò nei suoi diari adolescenziali: «Nella gioventù ci sono momenti in cui il cuore non riesce a trovare quello che vorrebbe, perché, oscurato da una nostalgia inesprimibile, dalle lacrime, non sa quello che cerca. È qualcosa di muto e di sacro in cui l’anima presenta la sua felicità quando l’adolescente interroga, sognante, le stelle». Sembra un passo naïf, ma il riferimento al salvifico cielo stellato è importante: tornerà in riferimento alla determinante passione per Schubert («Ci fu un tempo in cui non potevo parlare di Schubert, se non agli alberi e alle stelle») e ispirerà l’astrale finale della Fantasia op. 17, a cui provvisoriamente fu dato il titolo Sternbild (“Costellazione”). Lo sguardo verso un Altrove è anche fuga da una realtà improvvisamente dolorosa: a sedici anni, nel 1826, Schumann accusa il duplice colpo del suicidio della sorella e della morte del padre. Musica e letteratura non sono mero conforto, ma piuttosto eco ai suoi tormenti: «Non ribellarti al pensiero che la vita è piena di lacrime: rinneghi le dissonanze e gli accordi minori della musica. Non li ami? Gli uni e gli altri ci portano voluttà celestiali». È la romantica Wonne der Wehmut (voluttà del dolore), che già Schubert fa pienamente sua («Se volevo cantare l’amore cantavo il dolore, e viceversa»). La realtà irrompe però sotto forma di aspettative familiari: la madre, rimasta sola, vuole per il figlio una solida carriera di giurista. A diciotto anni, Robert parte per studiare diritto a Lipsia: la disciplina gli risulta arida e non fa che aumentare il suo amore per la musica. Schumann frequenta il Gewandhaus e i concerti presso la Thomaskirche, ma soprattutto inizia un serio percorso pianistico sotto la guida del più illustre didatta della città, Friedrich Wieck. Non è tuttavia ancora pronto per sottomettersi al suo furor pedagogico: parte per Heidelberg, pensando di cambiare Università, e poi da lì fa volta nel 1829 verso l’Italia, giungendo fino a Venezia attraverso la Svizzera e Milano. Il 1830 è l’anno della svolta: egli si rende conto che la musica lo «possiede completamente» e scrive perentoriamente alla madre: «Se seguo il mio genio, esso mi guiderà all’arte». In quegli anni, lo studio pianistico con Wieck è così accanito che Schumann, lavorando con il dito medio della mano destra tenuto immobile da una fasciatura (per poter rendere indipendente l’anulare), va incontro ventiduenne a quella che probabilmente oggi definiremmo "distonia focale”: il dito non risponde ai comandi della mente, è come paralizzato. Incidente provvidenziale? Robert scrive alla madre: «Non sarei stato molto felice in tournée come virtuoso». Eppure, l’anno dopo cade in depressione, al punto di tentare il suicidio (17 ottobre 1833: «Sento di diventare pazzo») e ancora nel 1838, a distanza di sei anni dall’incidente al dito, scrive: «Signore, perché mi hai fatto questo?».
I Papillons op. 2 nascono fra il 1829 e il 1830, proprio nel momento in cui Schumann decide definitivamente di consacrarsi alla musica. Al contempo, non si può parlare di un abbandono della vocazione letteraria: senza essere affatto musica a programma, questo ciclo pianistico è quasi una traduzione in suoni delle ultime pagine dei Flegeljahre (L’età ingrata o della pubertà) di Jean Paul. Tre sono i personaggi principali: Walt, il suo alter ego e contrario Vult, e Wina, la fanciulla polacca amata da entrambi. I due fratelli elettivi, che prefigurano già lo sdoppiamento schumanniano in Florestano ed Eusebio, scambiano le loro maschere nel Larventanz (danza in maschera) che chiude il romanzo, in un’atmosfera di misteriosa e seducente ambiguità (non è affatto irrilevante che nel 1829 Schumann avesse visitato Venezia, città delle maschere per eccellenza, intrisa di eros e mistero). [...]

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