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La
genesi del Ballo in maschera risale
al febbraio 1857, quando il Teatro San Carlo di Napoli avviò dei contatti con
Giuseppe Verdi per un’opera da rappresentare nel carnevale dell’anno
successivo. Verdi propose un soggetto che s’ispirava a un fatto storico
accaduto nel 1792: l’omicidio del monarca svedese Gustavo iii, perpetrato da un cortigiano durante
un ballo. Nonostante fosse presto ben chiaro che la censura napoletana non
avrebbe accettato di veder portato sulle scene l’omicidio d’un re, Un ballo in maschera fu terminato senza
tener troppo da conto le avvisaglie sull’atteggiamento dei censori partenopei. Ma
quando questi imposero che il protagonista dell’opera non fosse un monarca, che
il ruolo d’Amelia fosse quello d’una sorella anziché d’una moglie, che il tema
della cospirazione non recasse alcuna motivazione politica, che l’omicidio
avesse luogo fuori scena, che la datazione venisse portata all’epoca medievale e
che si eliminassero le scene del ballo e del sorteggio, Verdi abbandonò
l’impresa.
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«La magia di
quest’opera – spiega Chung, che per la quinta volta si misura con un’opera di
Verdi in Fenice, dopo La traviata, Rigoletto, Otello e Simon Boccanegra
– sta nel fatto che è un diamante che brilla, anzi un insieme di diamanti che
brillano. Ognuno dei personaggi è un gioiello, ci troviamo di fronte a tanti
gioielli circondati da una musica particolarmente brillante. Non conosco un
altro titolo di Verdi che lo sia altrettanto. È davvero un ballo, una festa
musicale con una brillantezza che non ritrovo normalmente in Verdi. Anche nella
Traviata ci sono momenti del genere,
ma non tutta l’opera ne è pervasa».
«La mia idea
scenica – spiega il regista Gianmaria Aliverta, già applaudito a Venezia per la
messinscena di Mirandolina – parte
dal fatto che sia la politica a generare gli avvenimenti che portano alla catastrofe
finale. Antonio Somma, per assecondare le esigenze della censura trasponendo la
trama in America, introduce diversi personaggi di colore o creoli: questo
elemento non può che richiamare alla mente il problema della schiavitù e le
condizioni della popolazione nera americana. Per enfatizzare quest’aspetto ho
pensato di ambientare l’opera non nel periodo previsto dagli autori, una Boston
della fine del Seicento, ma all’epoca in cui è stata composta, cioè la seconda
metà dell’Ottocento, e per essere più precisi il ventennio che va dal 1867 al
1887. Siamo alla fine della guerra di Secessione, quando è stato già approvato
il xiii emendamento, con il quale
la schiavitù viene abolita per sempre».
Nella nuova
messinscena fenicea, Riccardo sarà interpretato dal tenore Francesco Meli, Renato
da baritono Vladimir Stoyanov, Amelia dal soprano Kristin Lewis. Figurano
inoltre nel cast Silvia Beltrami nel ruolo dell’indovina Ulrica, Serena
Gamberoni in quello di Oscar, William Corrò in quello del marinaio Silvano; Simon
Lim e Mattia Denti interpreteranno i due congiurati Samuel e Tom, Emanuele
Giannino sarà un giudice, mentre gli artisti del Coro del Teatro La Fenice
Roberto Menegazzo e Dionigi D’Ostuni si alterneranno nel ruolo del servo
d’Amelia. Oltre al Coro del Teatro La Fenice preparato da Claudio Marino
Moretti, sarà impegnato anche il coro di voci bianche dei Piccoli Cantori
Veneziani preparati da Diana D’Alessio.
L’opera, che
sarà proposta con i sopratitoli in italiano e in inglese, sarà in scena al
Teatro La Fenice venerdì 24 novembre 2017 ore 19.00 (turno A), domenica 26
novembre 2017 ore 15.30 (turno B), mercoledì 29 novembre 2017 ore 19.00 (turno
D), venerdì 1 dicembre 2017 ore 19.00 (turno E) e domenica 3 dicembre 2017 ore
15.30 (turno C).
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