sabato 20 ottobre 2012

Nobilissima direzione. Muti superbo al Ravenna Festival


SANCTA SUSANNA
NOBILISSIMA VISIONE
Hindemith



Csilla Boross (Susanna)
Brigitte Pinter (Klementia)
Annette Jahns (la vecchia suora)
Anahi Traversi (una serva)
Igor Horvat (un servo)
Catherine Pantigny (prima apparizione)
Virginia Barbanti (seconda apparizione)

Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
Riccardo Muti (direzione musicale)
Chiara Muti (regia)
Leonardo Scarpa (scene)
Alessandro Lai (costumi)
Vincent Longuemare (luci)

Ravenna
Teatro Alighieri, 7 luglio 2012
nuovo allestimento
coproduzione Ravenna Festival, Teatro dell’Opera di Roma



Forse, il Festival di Ravenna è ‘inattuale’. Nella misura in cui le scelte artistiche e programmatiche cozzano con una realtà profondamente incapace di coglierne tutta la ricchezza sfaccettata, animata come mai come quest’anno di fede e filosofia, di musica e di silenzio. Inattuale, e allo stesso tempo (o proprio per questo) grandissimo. Certamente il migliore in Italia. Fuori da logiche di mercato. Marginale, come forse marginale è oggi Ravenna, un tempo Capitale di altri antichi Imperi. Tutto questo e altro ancora trasudava dal dittico che i Muti (Riccardo, Maria Cristina, Chiara) hanno proposto nella splendida cornice del Teatro Alighieri. Muti ama ‘Sancta Susanna’. Non ci sono modi per disegnare la ‘loro’ relazione. Proposta più volte in questi ultimi anni, ogni volta è – come sempre nel caso di Riccardo Muti – uno scavo ulteriore, un lavoro al cesello. E l’opera di Hindemith si presta a questa introspezione progressiva. E di una modernità esasperante. Santità come figura di abiezione, scrive in uno splendido saggio nel programma di sala (curatissimo, come raramente capita di vedere) Enrico Groppali: un divino satamismo, caro a quel mix di cultura che dal decadentismo di D’Annunzio e Maeterlinck giugnge sino all’Espressionismo. Merito di un libretto che lavora tra parole tronche e silenzi. Il silenzio di Dio.  Quello stesso silenzio che precipita nella paura del vuoto (come in tanto cinema di Bergman).  In quella espiazione di un peccato originale che noi non abbiamo commesso ma affrontiamo nel quotidiano. Il debutto nell’opera lirica – e nell’incontro con la Figura di un Padre sicuramente ingombrante – di Chiara Muti è stato felicissimo. La triade Giudizio-Libertà-Perdono è la chiave del suo lavoro: l’impossibilità di reprimere la Natura (e la propria natura), il bisogno (la necessità?) del Perdono. Susanna lo implora. Confessa. Ammette la propria debolezza. E’ bella (e brava) la Susanna di Csilla Boross (già Abigaille e Lady Macbeth a Roma con Muti). E’ perfetta, in questa rappresentazione/esecuzione che esplode. Si respira teatro, tutto il teatro che Chiara Muti ha inalato nei suoi anni di formazione. C’è come un che di cinematografico in gesti e momenti: lo sguardo atterrito di due suore giovani che fissano in ginocchio noi spettatori. LA sfida estrema di Riccardo Muti – e uno dei fili rossi del Festival – era il contrasto tra ‘Nobilissima visione’, il balletto (forse un po’ troppo scapigliato dalla coreografia di Micha van Hoecke) e l’opera. Due linguaggi radicalmente opposti, lì algido e sodo, qui ebbro e sensuale. Tirando fuori dai giovani dell’Orchestra Cherubini risultati pari a quelli di compagini europee consolidate dalla storia. Isterismo, misticismo, erotismo in musica come raramente capita di sentirne. Un orrore voluttuoso che rapisce ad ogni istante (e l’esplosione degli appalusi ne è misura indiscutibile). Luci fredde ed efficaci di Vincent Laguemare, la scenografia tradizionale di Leonardo Scarpa (con immancabile altare e incombente crocifisso): su questo, Chiara Muti è incalzante e incombente, chiede un intreccio di corpo e di spirito ai propri attori/cantanti, fino ad un finale travolgente, tra l’anatema ‘Satana!’ lanciato dalle consorelle e il gesto di Susanna, irrorata dalla luce della Redenzione. Una grandissima serata, come raramente oramai capita.

Sergio Albertini (c) 2012

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