TEATRO ALLA SCALA
MUSICA DA CAMERA 2025/2026
DOMENICA 14 DICEMBRE 2025 - ORE 11
RIDOTTO DEI PALCHI “ARTURO TOSCANINI”
FuoriAbbonamento
Rappresentazione N. 5
FRANCESCO DE ANGELIS, violino
ELENA FACCANI, viola
ALFREDO PERSICHILLI, violoncello
ROBERTO PARUZZO, pianoforte
LUDWIG VAN BEETHOVEN
SONATA N. 7 IN DO MIN. OP. 30 N. 2
per violino e pianoforte
Allegro con brio
Adagio cantabile
Scherzo. Allegro
Finale. Allegro
***
JOHANNES BRAHMS
QUARTETTO IN DO MIN. OP. 60 N. 3
per pianoforte e archi
Allegro non troppo
Scherzo. Allegro
Andante
Finale. Allegro comodo
Inquietudini in doppia B
di Carlo Maria Cella
Un filo lega i due pezzi di Beethoven e
Brahms: la Sonata op. 30 n.2 fu scritta nell’anno del testamento di Heiligenstadt, il
Quartetto con pianoforte n. 3 op. 60 riverbera eco del giovanile “periodo Werther”.
«Ammasso di cose sapienti senza
metodo... niente di naturale, non l’ombra di canto... una foresta nella quale si è fermati a
ogni passo da cespugli nemici, dalla quale si esce spossati, senza piacere... un tale viluppo di
difficoltà da far perdere la pazienza...». La recensione della “Allgemeine Musikalische
Zeitung” si riferisce alle tre Sonate per violino e pianoforte op. 12 (1798), le prime delle
dieci che Beethoven compone fino all’op.96 del 1812.
In realtà è una recensione di tutto
il primo Beethoven, se non proprio di tutto Beethoven, da parte del suo tempo. Gli argomenti
sono sempre gli stessi: grande dottrina, molta invenzione ma troppo spirito dimostrativo,
troppa ricerca del nuovo. Troppa ricerca tout-court. Beethoven pianista suonava un po’
“sporco” e angoloso, ma lucido e perentorio. A Vienna prese lezioni di violino e anche su
questo strumento ci sono testimonianze ed elementi per intuire un uso dell’arco più portato
alla segmentazione che alla continuità. La Sonata op. 30 n. 2, settima delle dieci, è
l’elevazione all’ennesima potenza di quei caratteri. Articolatain quattro movimenti, come la
Frühlings-Sonate op. 24 del 1801 e la futura op. 96, l’op. 30 n.2 nasce accanto a una piccola folla
di sonate per pianoforte – Marcia Funebre, Al chiaro
di Luna, Pastorale –, alla Sinfonia
n.2 e al Concerto per pianoforte e orchestra n.3. Il gesto di Beethoven si è fatto ancor più
netto e risoluto rispetto all’op. 12.
Nel primo movimento il pianoforte
annuncia il tema in piano, accumulando una tensione che il violino sviluppa e carica
d’intensità riprendendone il materiale. Anche l’Adagio cantabile lancia avvertimenti inquieti
in certi arpeggi della tastiera che si concretizzano in nuovi contrasti nello Scherzo,
movimento “aggiunto” ai consueti tre (Beethoven non n era insoddisfatto e fu tentato di
toglierlo). Nel caso del Finale, il tentativo di inquadrare il movimento in termini di geometriche
corrispondenze fra esposizione, sviluppo e ripresa si scontra con diverse regole infrante. E
Beethoven insinua un’altra sua «passion predominante», quella per la variazione.
La Sonata in do minore profila una
sorta di pensiero “teorico” cui non può essere estraneo il dramma dell’uomo. L’op. 12 e
l’op. 30 aprono e chiudono con precisione il tempo in cui Ludwig avverte i primi sintomi della
sordità e guarda in faccia l’inevitabile. In mezzo ci sono le delusioni, i consulti medici,
le crisi disperate, il pensiero del suicidio. Nel 1802 Beethoven scrive il testamento di
Heiligenstadt e compone l’op. 30 n.2: vie nuove e infermità convergono nello spazio libero
dell’orecchio interno. In fuga dal dolore.
Agosto 1875. Simrock si prepara a
pubblicare il Quartetto con pianoforte op. 60 e Brahms gli scrive una lettera piena di
allegria: «Può anche mettere una figura sul frontespizio: una testa, con puntata una rivoltella. Ora
può farsi un’idea di questa musica! Le invierò una mia fotografia! Potrà anche metterci il
frac blu, i calzoni gialli e gli stivali alla scudiera, dato che lei
predilige la stampa a colori». (Dettaglio: la “mise” suggerita è
quella di Werther nel romanzo di Goethe).
Johannes ha quarantadue anni, è per la
terza volta direttore artistico dei Musikfreunde di Vienna, sta per ricevere l’offerta di
una laurea honoris causa dall’università di Cambridge (Wagner ne fu entusiasta), stringe
nuove amicizie, è spesso in tournée con le sue musiche, ha composto i primi due quartetti per
archi e le Variazioni su un tema di Haydn, vede ormai la fine della prima, tormentatissima
sinfonia e, insieme, dell’ansia da prestazione all’ombra di Beethoven. Non c’è nulla che
motivi un autoritratto con pistola. Infatti non è a quel 1875 che il Quartetto op.60 attinge il
“clima”. «Fra i grandi – annota Giorgio Pestelli – Brahms è quello che meno si è affrettato a
diventarlo». Il tempo era uno stato mentale e un metodo.
Se la Sinfonia n.1 aveva impiegato più
di dieci anni per diventare realtà, il Quartetto op. 60 ne impiega venti. La pagina è un
work in progress che inizia nel 1854-56, il tempo della malattia di Robert Schumann, dell’amore
impossibile per Clara, dell’ansia nella ricerca di una propria identità (venti i pezzi
giovanili sparsi un giorno sul pavimento di casa e poi bruciati nel camino: venti). Insomma,
il “periodo Werther” di cui narra il biografo Kalbeck.
Il primo movimento composto da Brahms è
lo Scherzo, che conserva elementi della prima versione ancora in do diesis minore; un
6/8 libero nella forma, non proprio uno Scherzo con Trio centrale, già un mélange di
generi, come nello stile maturo. Il terzo e il quarto movimento sono del 1873-74: l’Andante
in mi maggiore, un Lied tripartito in 4/4, espressivo, disteso, un “canto d’amore”
inserito in un contesto agitato, e l’Allegro comodo fatto di tre temi intessuti di severo contrappunto.
Il primo movimento è l’ultimo composto, nel 1875: un Allegro non troppo che compone in
assolvenza il primo tema, bellissimo, catturato a una delle prime versioni del 1854-56,
elaborato in una chiave appassionata che contagia l’intero quartetto. Movimento nel
quale Brahms invita a immaginare «un uomo che sta per bruciarsi il cervello perché non
ha un’altra soluzione», ennesimo riverbero di dolori wertheriani.
Un credo per Brahms resta fermo: «Gli
altri facciano come credono, il mio maestro è Beethoven». Ma nella musica da camera,
Johannes cercherà e troverà sempre il modo di liberarsi dal peso di «avere un genio
che ti cammina due passi avanti». E lo stile dell’op. 60 è totalmente brahmsiano nell’arte
di «intrecciare, alludere, rivelare e coprire» (Pestelli), attirandoci nel «velo nebbioso della
riflessione» (Hanslick).