SALA
SANTA CECILIA ORE 20.30
Andrea Lucchesini pianoforte
Robert Schumann
Papillons op. 2
Carnaval op. 9
Tre Romanze op. 28
Fantasia op. 17
Il concerto è trasmesso in
diretta da Rai Radio Tre
Andrea Lucchesini inaugura la
Stagione di musica da Camera con un programma tutto dedicato a Robert Schumann,
autore le cui musiche attraversano l'intera stagione cameristica. Il programma
comprende una serie di capolavori del compositore tedesco, opere nelle quali si
rivela pienamente la sua poetica. I tratti salienti della personalità di
Schumann - intrisi di irrazionalismo, mistica esaltazione, di irrequietezza, di
forti ideali, dell'"anelito dell'infinito" (prendendo in prestito le
parole del musicologo Massimo Mila) - sono anche quelli della sua musica che
abbandonando gli schemi della tradizione classica si esprime in piccole forme e
in brevi episodi traducendo nelle note un mondo interiore, una visione della
realtà sempre animata da una fantasia esaltata, da una propensione alla
meditazione interiore, da una psiche attraversata dai più diversi impulsi. Si
entra così in un mondo fantastico abitato da svariate figure immaginarie e da
appassionati slanci sentimentali, da zone d'ombra e da trionfali ottimistiche
affermazioni. Cogliere questi aspetti e affrontare quelli delle difficoltà
tecniche disseminate in queste pagine è compito per grandi pianisti e grandi
interpreti categorie alle quali appartiene pienamente Andrea Lucchesini.
Dalle note di sala di Luca
Ciammarughi
«È strano che nel momento in
cui provo i sentimenti più intensi, non posso più essere poeta»: così scriveva
Robert Schumann a soli diciassette anni. Tali parole sembrano riecheggiare
quelle di Jean Paul Richter, che già all’epoca era uno dei suoi scrittori di
riferimento: «Quando sono trasportato dall’emozione e non voglio reprimerla,
non cerco parole, ma suoni». Come gli eroi (o più spesso, anti-eroi) del
romanticismo di Hoffmann e Jean Paul, Schumann intraprende la via musicale
perché solo la musica è interprete di quell’inesprimibile di fronte al quale la
parola risulta insufficiente. La scelta non è facile né immediata: per lungo
tempo, egli esita fra la letteratura e la musica. E, una volta imboccato il
bivio, la letteratura rimarrà presente, larvata e in filigrana, anche nella
musica. Si potrebbe quasi dire che, in Schumann, la musica sia costellata di
rimandi all’universo verbale – a partire dal gioco combinatorio profondo che
nasce dalla corrispondenza di lettere dell’alfabeto con note musicali – e che
la letteratura sia vissuta in chiave musicale: non è un caso che egli affermi
di aver appreso il contrappunto, ovvero l’intrecciarsi di voci indipendenti,
dai romanzi di Jean Paul ancor più che dalle fughe di Bach.
È impossibile avvicinarsi a Schumann senza considerarne le contraddizioni profonde, che a lungo sono state lette come segni di uno squilibrio mentale manifestatosi precocemente, ma che in realtà sono innanzitutto il risultato di una coscienza lucidissima della propria molteplicità e della volontà di abbracciare l’esistente in tutta la sua complessità. Quando Schumann, nelle pagine della rivista da lui fondata e nelle sue composizioni, dà voce a due personaggi, il malinconico sognatore Eusebio (espressione di un mondo notturno, lunare) e l’appassionato Florestano (espressione estroversa di un universo diurno e della volontà di conquista di tale universo), egli schematizza in questa duplicità la complessità estrema della propria sfera interiore. Nella musica, i due personaggi finiscono spesso per sovrapporsi, dando luogo a una miriade di sfaccettature: si pensi al quinto numero del Carnaval op. 9, intitolato Florestan, al cui interno appare una citazione dai Papillons op. 2 legata alla maschera di Eusebio. A Schumann non interessa definire troppo nettamente tali maschere: il suo regno è l’ambiguità. Come il suo eroe letterario, Jean Paul, egli è volutamente criptico: rifiuta un mondo senza mistero. Pur disseminando la sua musica di segni e simboli che orientano l’immaginazione dell’ascoltatore, prende le distanze da un eccesso di coscienza: l’arte dei suoni è per lui una sorta di veggenza. Tale veggenza parte paradossalmente da un’accettazione dell’oscurità. Novalis, esploratore sublime del mondo notturno, indica la strada: «Padrone della Terra è colui che sonda gli abissi. Ai suoi occhi, nella notte dei baratri, appare luminoso un raggio eterno». La notte, nella sua indefinitezza, è la dimensione in cui tutto è permesso e possibile: il regno della Sehnsucht, non tanto come nostalgia rivolta al passato, ma come aspirazione all’inafferrabile. Il romantico non vuole vedere con esattezza, come faceva l’illuminista, ma credere. In cosa? Innanzitutto in una sorta di santità dell’amore e della natura.
Amore: il tema è cruciale per comprendere come sia potuta fiorire l’impressionante serie di capolavori pianistici schumanniani nel decennio fra il 1829 e il 1839, nonché la produzione liederistica successiva. L’humus culturale e il talento musicale non bastano a giustificare lo slancio creativo: la biografia è determinante. Schumann aveva avuto un’infanzia felice, al punto da essere soprannominato Lichterpunkt (“punto di luce”) dalla madre. Tale luminosità si fonde però ben presto a ineffabili tormenti, come egli stesso rivelò nei suoi diari adolescenziali: «Nella gioventù ci sono momenti in cui il cuore non riesce a trovare quello che vorrebbe, perché, oscurato da una nostalgia inesprimibile, dalle lacrime, non sa quello che cerca. È qualcosa di muto e di sacro in cui l’anima presenta la sua felicità quando l’adolescente interroga, sognante, le stelle». Sembra un passo naïf, ma il riferimento al salvifico cielo stellato è importante: tornerà in riferimento alla determinante passione per Schubert («Ci fu un tempo in cui non potevo parlare di Schubert, se non agli alberi e alle stelle») e ispirerà l’astrale finale della Fantasia op.17, a
cui provvisoriamente fu dato il titolo Sternbild (“Costellazione”). Lo sguardo
verso un Altrove è anche fuga da una realtà improvvisamente dolorosa: a sedici
anni, nel 1826, Schumann accusa il duplice colpo del suicidio della sorella e
della morte del padre. Musica e letteratura non sono mero conforto, ma
piuttosto eco ai suoi tormenti: «Non ribellarti al pensiero che la vita è piena
di lacrime: rinneghi le dissonanze e gli accordi minori della musica. Non li
ami? Gli uni e gli altri ci portano voluttà celestiali». È la romantica Wonne
der Wehmut (voluttà del dolore), che già Schubert fa pienamente sua («Se volevo
cantare l’amore cantavo il dolore, e viceversa»). La realtà irrompe però sotto
forma di aspettative familiari: la madre, rimasta sola, vuole per il figlio una
solida carriera di giurista. A diciotto anni, Robert parte per studiare diritto
a Lipsia: la disciplina gli risulta arida e non fa che aumentare il suo amore
per la musica. Schumann frequenta il Gewandhaus e i concerti presso la Thomaskirche,
ma soprattutto inizia un serio percorso pianistico sotto la guida del più
illustre didatta della città, Friedrich Wieck. Non è tuttavia ancora pronto per
sottomettersi al suo furor pedagogico: parte per Heidelberg, pensando di
cambiare Università, e poi da lì fa volta nel 1829 verso l’Italia, giungendo
fino a Venezia attraverso la Svizzera e Milano. Il 1830 è l’anno della svolta:
egli si rende conto che la musica lo «possiede completamente» e scrive
perentoriamente alla madre: «Se seguo il mio genio, esso mi guiderà all’arte».
In quegli anni, lo studio pianistico con Wieck è così accanito che Schumann,
lavorando con il dito medio della mano destra tenuto immobile da una fasciatura
(per poter rendere indipendente l’anulare), va incontro ventiduenne a quella
che probabilmente oggi definiremmo "distonia focale”: il dito non risponde
ai comandi della mente, è come paralizzato. Incidente provvidenziale? Robert
scrive alla madre: «Non sarei stato molto felice in tournée come virtuoso».
Eppure, l’anno dopo cade in depressione, al punto di tentare il suicidio (17
ottobre 1833: «Sento di diventare pazzo») e ancora nel 1838, a distanza di sei
anni dall’incidente al dito, scrive: «Signore, perché mi hai fatto questo?».
È impossibile avvicinarsi a Schumann senza considerarne le contraddizioni profonde, che a lungo sono state lette come segni di uno squilibrio mentale manifestatosi precocemente, ma che in realtà sono innanzitutto il risultato di una coscienza lucidissima della propria molteplicità e della volontà di abbracciare l’esistente in tutta la sua complessità. Quando Schumann, nelle pagine della rivista da lui fondata e nelle sue composizioni, dà voce a due personaggi, il malinconico sognatore Eusebio (espressione di un mondo notturno, lunare) e l’appassionato Florestano (espressione estroversa di un universo diurno e della volontà di conquista di tale universo), egli schematizza in questa duplicità la complessità estrema della propria sfera interiore. Nella musica, i due personaggi finiscono spesso per sovrapporsi, dando luogo a una miriade di sfaccettature: si pensi al quinto numero del Carnaval op. 9, intitolato Florestan, al cui interno appare una citazione dai Papillons op. 2 legata alla maschera di Eusebio. A Schumann non interessa definire troppo nettamente tali maschere: il suo regno è l’ambiguità. Come il suo eroe letterario, Jean Paul, egli è volutamente criptico: rifiuta un mondo senza mistero. Pur disseminando la sua musica di segni e simboli che orientano l’immaginazione dell’ascoltatore, prende le distanze da un eccesso di coscienza: l’arte dei suoni è per lui una sorta di veggenza. Tale veggenza parte paradossalmente da un’accettazione dell’oscurità. Novalis, esploratore sublime del mondo notturno, indica la strada: «Padrone della Terra è colui che sonda gli abissi. Ai suoi occhi, nella notte dei baratri, appare luminoso un raggio eterno». La notte, nella sua indefinitezza, è la dimensione in cui tutto è permesso e possibile: il regno della Sehnsucht, non tanto come nostalgia rivolta al passato, ma come aspirazione all’inafferrabile. Il romantico non vuole vedere con esattezza, come faceva l’illuminista, ma credere. In cosa? Innanzitutto in una sorta di santità dell’amore e della natura.
Amore: il tema è cruciale per comprendere come sia potuta fiorire l’impressionante serie di capolavori pianistici schumanniani nel decennio fra il 1829 e il 1839, nonché la produzione liederistica successiva. L’humus culturale e il talento musicale non bastano a giustificare lo slancio creativo: la biografia è determinante. Schumann aveva avuto un’infanzia felice, al punto da essere soprannominato Lichterpunkt (“punto di luce”) dalla madre. Tale luminosità si fonde però ben presto a ineffabili tormenti, come egli stesso rivelò nei suoi diari adolescenziali: «Nella gioventù ci sono momenti in cui il cuore non riesce a trovare quello che vorrebbe, perché, oscurato da una nostalgia inesprimibile, dalle lacrime, non sa quello che cerca. È qualcosa di muto e di sacro in cui l’anima presenta la sua felicità quando l’adolescente interroga, sognante, le stelle». Sembra un passo naïf, ma il riferimento al salvifico cielo stellato è importante: tornerà in riferimento alla determinante passione per Schubert («Ci fu un tempo in cui non potevo parlare di Schubert, se non agli alberi e alle stelle») e ispirerà l’astrale finale della Fantasia op.
I Papillons op. 2 nascono fra
il 1829 e il 1830, proprio nel momento in cui Schumann decide definitivamente
di consacrarsi alla musica. Al contempo, non si può parlare di un abbandono
della vocazione letteraria: senza essere affatto musica a programma, questo
ciclo pianistico è quasi una traduzione in suoni delle ultime pagine dei
Flegeljahre (L’età ingrata o della pubertà) di Jean Paul. Tre sono i personaggi
principali: Walt, il suo alter ego e contrario Vult, e Wina, la fanciulla polacca
amata da entrambi. I due fratelli elettivi, che prefigurano già lo sdoppiamento
schumanniano in Florestano ed Eusebio, scambiano le loro maschere nel
Larventanz (danza in maschera) che chiude il romanzo, in un’atmosfera di
misteriosa e seducente ambiguità (non è affatto irrilevante che nel 1829
Schumann avesse visitato Venezia, città delle maschere per eccellenza, intrisa
di eros e mistero). [...]
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