Barbara Strozzi
Arie per voce sola Op.8
Giulia Bolcato, Soprano
Remer Ensemble
Doppio album Arion dicembre 2023,
distribuito in Italia da marzo 2024
Il giovane soprano vicentino Giulia
Bolcato ha scelto per il suo debutto discografico, nel pieno di una
carriera in crescita sui migliori palchi internazionali, una
produzione rara e sfidante: il primo integrale mai pubblicato
delle Arie per Voce Sola Op.8 di Barbara Strozzi, caso
unico a noi giunto di cantante, compositrice e performer di se stessa
nella Venezia del ‘600, simbolo di tenacia e creatività al
femminile da riscoprire guidati dall’impeccabile magistero, studio
e dedizione di Giulia Bolcato.
«[...] e già che tanto non m’arestan
le debolezze di Donna che più non m’inoltri il compatimento del
Sesso, sopra lievissimi fogli volo devota ad’inchinarmi».
Barbara Strozzi dalla prefazione a
Op.5
La modernità della frase di Barbara
Strozzi, così attuale anche oggi, sarebbe di per sé ragione più
che sufficiente per imparare a conoscere la storia di questa donna
artista e compositrice eccellente, che sempre più spesso, grazie
alla bellezza della sua musica, ricorre in tanti recital vocali,
ma mai è stata presentata nell’interezza di un suo progetto
musicale come Giulia Bolcato ha voluto fare con l’ensemble Remer
(artigiano veneziano che dà forma a remi e forcole), creato
appositamente dal soprano vicentino per questo album e la sua ventura
declinazione dal vivo, scegliendo tra giovani musicisti esperti non
solo di musica barocca, ma soprattutto del milieu culturale veneziano
in cui si muoveva la Strozzi, al fine di rendere al meglio ogni
sfumatura d senso, musicale e verbale, di ognuna delle dodici
bellissime cantate dell’Opus 8.
Paradossalmente libera di dedicarsi
allo studio e all’arte proprio perché figlia illegittima, quindi
priva di doveri sociali, Barbara nasce nella casa dell’intellettuale
veneziano Giulio Strozzi, membro dell’Accademia degli Incogniti,
cenacolo libertino che coltivava idee filosofiche al limite
dell’eresia, un gusto letterario anticonformista e scabroso,
posizioni oscillanti tra misoginia e proto-femminismo. Giulio ama la
figlia e ne sostiene il talento, facendola studiare con Francesco
Cavalli e fondando per lei un sottogruppo degli Incogniti dedicato
alla musica, dove pare che Barbara, assai attiva e di riconosciuta
arte, abbia addirittura avuto occasione di incontrare la star
incontrastata del tempo, Monteverdi. Barbara, compositrice e
interprete di sé stessa, nonostante il successo, il benessere
economico, la stima degli ambienti dominanti per la sua arte, rimarrà
comunque sempre nel sentire comune una variante colta e fors’anche
stravagante di una prostituta poiché ai tempi, come scriveva
l’Aretino, «il sonare è da donna vana et leggera».
La difficile ambiguità della sua
posizione, vissuta però con tenacia ed orgoglio, la forza e finezza
del suo lavoro sia letterario sia musicale nei loro infiniti intrecci
di senso e di forma, anche l’appartenenza alla stessa terra non
potevano che colpire e sedurre il giovane soprano vicentino Giulia
Bolcato, la cui versatilità e voce luminosa è già stata ampiamente
apprezzata su palchi di grande prestigio, da Salisburgo all’Opera
di Firenze, con un repertorio che spazia giustappunto dal Barocco ai
ruoli di coloritura fino alla musica contemporanea: profilo dunque
perfetto per dar voce alla Strozzi che scrive in quell’alba europea
della musica vocale in cui la sensibilità dell’interprete diventa
essenziale per una resa corretta e al contempo emotivamente
coinvolgente.
Racconta Giulia: “Da musicista,
sono sempre stata affascinata dalla musica del Seicento italiano e
dalla sua straordinaria ricchezza espressiva, musica quasi
esclusivamente scritta da compositori uo- mini; credo sia quindi
estremamente interessante riconoscere e valorizzare il lavoro delle
poche donne che hanno avuto il coraggio di sfidare lo stigma sociale
proponendosi come musiciste e compositrici. Barbara Strozzi è, per
molti aspetti, una figura eccezionale: non solo è una musicista
professionista in un contesto prevalentemente maschile ma, come
compositrice, dimostra un talento fuori dal comune grazie al quale
riesce a fondere un’espressività musicale del tutto peculiare con
una personalissima sensibilità poetica, creando opere di grande
intensità emotiva. Vivo il mio lavoro con la consapevolezza che sono
sempre più richieste anche capacità imprenditoriali e in questo
aspetto ho trovato in Barbara Strozzi una fonte di ispirazione:
cresciuta in una casa benestante da figlia illegittima, ha dovuto
farsi strada sfidando le convenzioni e accettando di vivere quasi ai
margini della società, dimostrando determinazione e abilità fuori
dal comune nella creazione di opere di grande valore artistico.
Pertanto, ho voluto fortemente incidere questo disco su Barbara
Strozzi per celebrare la sua musica, la sua tenacia e per portare
alla luce la bellezza e l’importanza storica della musica di questa
incredibile compositrice.”.
Registrato nella vicentina Villa San
Fermo di Lonigo, luogo per eccellenza di villeggiatura di quella
nobiltà veneziana che la Strozzi deliziava pur rimanendone
formalmente esclusa, tutto l’album rappresenta un omaggio
appassionato, sincero ed al contempo raffinatissimo ad un mondo di
grande eleganza, finezza ma anche crudeltà sociale, che la
protagonista di allora visse con fierezza e la protagonista di oggi
ci restituisce come spunto di riflessione sullo status della donna
senza intaccare l’aura e il fascino che esso continua ad esercitare
sulla nostra immaginazione.
Ensemble Remer:
Federico Gugliemo ed Elisa Imbalzano,
violini
Ludovico Armellini, violoncello
Gianluca Geremia, tiorba
Marta Graziolino, arpa
Roberto Loreggiani, organo e
clavicembalo
Barbara Strozzi sopra lievissimi
fogli
Barbara Strozzi (Venezia 1619 – Padova 1677) occupa un posto di
rilievo nella storia della musica non tanto in virtù del suo sesso
quanto, come qualsiasi compositore, per la qualità e l’innovatività
della sua produzione musicale; è lei stessa a rivendicarlo nella
prefazione alla sua Op. 5: «[...] e già che tanto non m’arestan
le debolezze di Donna che più non m’inoltri il compatimento del
Sesso, sopra lievissimi fogli volo devota ad’inchinarmi». Strozzi
nasce a Venezia dalla relazione del padre Giulio con Isabella Garzoni
detta la Greghetta, forse donna di servizio nella sua casa, forse
cortigiana. Essere nata al di fuori di un matrimonio regolare
consente a Barbara quanto sarebbe stato quantomeno inconsueto per una
legittima figlia di famiglia tradizionale: un’istruzione letteraria
e musicale, nonché la possibilità di frequentare i circoli
intellettuali di cui suo padre fa parte. Giulio infatti è membro
dell’Accademia degli Incogniti, cenacolo libertino fondato dal
patrizio veneziano Giovanni Francesco Loredano e ispirato al pensiero
di Cesare Cremonini, interprete eterodosso di Aristotele
all’università di Padova: lo Stagirita non viene letto come un
precursore del messaggio cristiano, come impone l’ortodossia
cattolica, ma come un filosofo naturalista, precursore di valori
all’epoca ampiamente sul crinale dell’eresia; il senso della vita
e del mondo non è da cercarsi nell’altrove, nel Regno dei Cieli e
nella metafisica, ma nel qui-e-ora, nelle leggi della natura,
nell’appagamento dei sensi. Nella temperie reazionaria del
Cattolicesimo controriformato è uno scandalo, quindi una moda
irresistibile: chiunque nutra ambizioni intellettuali e politiche
nella Venezia esangue del primo Seicento passa dagli Incogniti; chi
non vanti almeno un titolo iscritto all’Indice non può dirsi un
letterato alla moda. Gli Incogniti coltivano un gusto letterario
anticonformista e scabroso che si riversa in un profluvio di
scritti e romanzi apertamente immorali, osceni, al contempo misogini
e proto-femministi — in una parola: libertini — di capillare
circolazione, che si sposano alla perfezione con il sensualismo
estenuato della poetica marinista imperante nell’Europa del
Seicento — che innerva da cima a fondo anche la poesia intonata da
Strozzi; vale la pena ricordare che proprio il Loredano è autore
della fortunata Vita del cavalier Marino (1631). Giulio nutre un
amore sincero per la figlia elettiva: non la riconosce formalmente —
nell’atto di battesimo è registrata come Barbara Valle — e si
prodiga per farla studiare con il compositore più in vista a Venezia
dopo Claudio Monteverdi: Francesco Cavalli, che domina le scene
veneziane in tutto il medio Seicento.
È l’epoca aurorale della
monodia accompagnata — il canto a voce sola che da inizio secolo
assurge allo status di musica d’arte — e del melodramma,
autentico teatro sperimentale che nasce a inizio secolo nelle
camerate fiorentine e trova in Venezia dal 1637 la dimensione
pubblica che ancora oggi gli riconosciamo. Nonostante
l’anticonformismo libertino, le donne non sono ammesse alle
riunioni degli Incogniti nei palazzi in cui si riuniscono, così
Giulio Strozzi fonda l’Accademia degli Unisoni, un sottogruppo
musicale degli Incogniti — alle cui sessioni sembra aver preso
parte anche Claudio Monteverdi – forse con lo scopo precipuo di
favorire l’attività musicale della figlia che, dal 1644, inizia a
pubblicare le proprie composizioni. Il talento di Barbara Strozzi
fiorisce e viene riconosciuto: in una raccolta di brani vocali del
compositore Nicolò Fontei contenenti testi di Giulio (Delle
bizzarrie poetiche…, 1636) Barbara viene già indicata come la «di
lui [di Giulio] virtuosissima cantatrice» e, in una lettera privata,
Giovanni Francesco Loredano scrive «che se fosse natta in altro
secolo, haverebbe al sicuro ò usurpato ò accresciuto il luogo alle
muse». Come ogni aspetto della vita pubblica nel Seicento, le
sessioni delle accademie sono rigorosamente formalizzate: i membri
decidono un tema di discussione su cui argomentare e su cui
esercitare la propria retorica. Pare che nelle riunioni degli
Incogniti non vi fosse spazio per la musica, ma presso gli Unisoni
essa è parte del dibattimento, tanto da creare il contesto specifico
in cui sorge l’intera produzione di Barbara Strozzi. Lo
testimoniano Le veglie de’ signori Unisoni (1638), tre resoconti
manoscritti delle attività accademiche e dedicate a lei, che anima
le riunioni cantando accompagnandosi con la viola, la tiorba o la
tastiera, distribuendo premi e deliziando gli ospiti con la sua
singolare, ricercata presenza. Quella che noi oggi annoveriamo tra i
maggiori compositori del Seicento è verosimilmente una cortigiana;
lo testimonierebbe il suo ritratto — invero non identificabile con
assoluta certezza — in cui compare adorna di fiori, il seno
prominente appena coperto, una viola da gamba in pugno e un violino
appoggiato di fronte, come ad attendere un compagno di duetto. Il
fatto di comporre e intonare poesie accompagnandosi su strumenti
musicali in salotti privati doveva innalzare non di poco la sua fama,
permettendole sicurezza economica e un certo rispetto sociale, sempre
e comunque al di fuori della moralità comunemente accettata:
l’attività musicale — men che mai professionale — non si
addice a una ragazza di buona famiglia poiché «il sonare è da
donna vana et leggera» (Pietro Aretino, Primo libro de le lettere,
1538); esibirsi viene considerato dalla morale comune alla stregua
della prostituzione e con questa di frequente associato. Le notizie
sulla sua vita rimangono estremamente lacunose e frammentarie; dopo
la morte del padre (1652) continua la sua attività musicale e gode
di una situazione economica e sociale di un certo prestigio; lo si
evince dal fatto che — per un’incombenza amministrativa —
riceve in casa sua un notaio, anziché recarvisi. Ha una relazione
illegittima ma continuativa con il patrizio Giovanni Paolo Widmann:
non si sposano e Barbara dà alla luce almeno quattro figli,
battezzati nella chiesa di San Pietro di Castello, l’allora
cattedrale patriarcale di Venezia.
Muore a Padova nel 1677 e viene
sepolta nella chiesa degli Eremitani. La produzione musicale di
Barbara Strozzi è ampia e concentrata pressoché completamente sulla
monodia accompagnata. Tutta la sua musica che conosciamo è
pubblicata in otto raccolte di brani per soprano e basso continuo,
pressoché interamente di argomento amoroso, a eccezione dell’Op. 5
che raccoglie arie spirituali. Si tratta prevalentemente di brani
denominati cantate e arie: le prime ampie e ambiziose, dall’eloquio
solenne e dall’ornato prezioso; le seconde brevi e perlopiù
strofiche, di grande varietà stilistica, per un totale di oltre
ottanta brani. La cantata come genere vocale da camera si sta in
questi anni formando, affrancandosi dal madrigale in un processo di
mutamento radicale avviato da Monteverdi già nel secondo decennio
del Seicento; è, come l’opera, un ferro rovente che si va
forgiando tra le mani di compositori come Monteverdi, Manelli,
Strozzi e altri. Quando dà alle stampe la sua ultima raccolta, l’Op.
8 (1664), Venezia è in piena Guerra di Candia contro i vicini
Ottomani che porterà alla perdita di Creta e a un salasso erariale
da cui la Serenissima non si riprenderà più; è necessario dare
un’immagine sontuosa di sé e iniziare a cercare mecenati anche
fuori Venezia. La raccolta è dedicata a Sofia Amalia di Brunswick in
occasione della sua prima visita nella Dominante; qui l’aristocratica
tedesca, regina consorte di Danimarca, è folgorata dal melodramma
veneziano e si adopererà per importarlo nell’austera corte di
Copenhagen. In sua lode Strozzi concepisce l’elaborata cantata che
apre l’Op. 8, virtuosistica e sfarzosamente ornata, su testo di
Giuseppe Artale, poeta e cavaliere a servizio della famiglia della
dedicataria. La raccolta è ambiziosa e contiene dodici brani per
soprano e basso continuo, con ogni probabilità concepiti per
l’estensione e per la tessitura di Barbara, per essere da lei
stessa cantate accompagnandosi, elemento comune delle otto raccolte.
Tra i brani dell’Op. 8 spicca la serenata Hor che Apollo, una delle
rare composizioni di Strozzi che comprendono l’intervento di una
coppia di violini e che svelano una scrittura strumentale preziosa,
come preziosa è la costante ricerca di idee originali, bizzarre,
stupefacenti. Un esempio lampante di mise en abîme è L’Astratto,
cantata meta-musicale in cui Strozzi immagina un compositore che
prova e scarta ripetutamente idee musicali in una sorta di soliloquio
dai tratti beffardi e dagli effetti comici sul potere della musica di
lenire le pene d’amore. Una ricerca di continua varietà nei
concetti e nella musica governa la raccolta e ci mette di fronte a
una compositrice di debordante inventiva. Le declinazioni del tema
amoroso messe in campo nell’Op. 8 sono innumerevoli e allineate
alla poetica seicentesca di rappresentazione degli affetti: dalla
furia impetuosa d’ispirazione teatrale dell’aria È pazzo il mio
core al trasognato intimismo del lamento Che si può fare? con il suo
rimuginare interrogativo. Entrambi — la follia e il lamento —
sono stati dell’animo che i frequentatori dei primi teatri d’opera
attendono con impazienza di veder rappresentati dai divi che calcano
il palcoscenico; Strozzi — per quel che è dato sapere — non
scrive per il teatro ma è un mondo che conosce da vicino: ne
frequenta gli esponenti e ne padroneggia gli stilemi, li fa propri e
li impiega nel nuovo genere monodico alla moda, contribuendo così
all’affermazione della cantata che, tra Sei e Settecento, diventa
il genere vocale cameristico per eccellenza. È il testo poetico che
guida la mano della compositrice, attenta a descriverlo o a
potenziarne il significato con la musica, secondo la tradizione
madrigalistica che filtra nella produzione cameristica e nell’opera.
La sua musica vede il susseguirsi frequente e talvolta improvviso di
passaggi misurati e non misurati, nel tentativo di fissare sulla
pagina scritta un intento interpretativo massimamente libero, vin -
colato al significato e alla passione cui si vuol dar voce più che
al rigore ritmico, del resto ancora del tutto recente all’epoca.
Allo stesso modo anche il suo linguaggio musicale riserva continue
sorprese: al gusto per il concetto, per l’arguzia, per la sfumatura
di senso presente nel testo corrispondono scarti armonici
inaspettati, cromatismi, dissonanze; tutte risorse tese ancora una
volta all’espressione, più che a una funzionalità logica del
ritmo, com’è familiare all’orecchio contemporaneo. Nel suo
contesto privato ai margini dell’accettabilità sociale Barbara
Strozzi dà vita a un corpus di musica imponente e originale, con la
libertà di chi si libra con disinvoltura sulla carta pentagrammata.
Mauro Masiero