LA STANZA DI ALICE
«Ma io non voglio andare fra i matti», osservò Alice.
«Be', non hai altra scelta», disse il Gatto «Qui siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta.»
«Come lo sai che sono matta?» disse Alice.
«Per forza,» disse il Gatto: «altrimenti non saresti venuta qui.»
«Non credere mai di essere altro che ciò che potrebbe sembrare ad altri che ciò che eri o avresti potuto essere non fosse altro che ciò che sei stata che sarebbe sembrato loro essere altro.» (la Duchessa)
Dietro un magma sonoro, dal fondo del letto, attraverso le lenzuola/tenda, appare Alice. Si stiracchia. Le sue braccia nude si tendono, si spingono fino alle barre della testiera. Cercano una presa di terra, un contatto col mondo reale. Giunge da un altrove. Forse dal sonno, forse dal mondo dei sogni. Si sveglia. Quello che la circonda è il degrado, l’abbandono.
Un luogo consumato dal tempo. Residui, rottami, scorie arrugginite. Una sedia, un armadio, la tazza di un cesso, un lavabo lercio. Un lungo tubo. Due botole.Una stanza imbottita in gommapiuma. Una stanza di manicomio come un tempo si credevano giuste. E assieme un sottoscala, un luogo dove la luce filtra, ma non giunge mai diretta.
Si apre con inquietudine, questa Alice di Matteo Tarasco, che firma regia, scene e luci, tratta da Lewis Carroll in scena al Teatro Menotti di Milano dall’11 al 23 marzo 2014 dopo il debutto al XLV Festival Teatrale di Borgio Verezzi. Una scena che perturba sin dall’ingresso nella sala vuota. Un luogo nascosto (segreto ?) visto in una prospettiva atipica dall’alto di un piano superiore. La vertigine della caduta in un buco. Il precipitare della propria consuetudine visiva. E’ il Manicomio di Wonderland, luogo fetido che data di uno ieri arrivato immune all’oggi, come gran parte dei manicomi reali. Alice è spaesata. O forse, è solo in una fase di transizione, costretta all’inevitabile rito di passaggio (“ho sedici anni e sei mesi”). Emblematico, in tal senso, quel suo seppellire la bambola dentro l’armadio (che possiede anche uno specchio, non solo in cui specchiarsi, ma anche attraverso cui guardare noi spettatori. L’adolescenza che si fa donna. La consapevolezza del corpo che si fa Corpo. Matteo Tarasco, in una intervista, ha dichiarato che il suo sogno era quello di diventare psicanalista. Quel sogno sognato viene sognato qui. Borges ha insegnato a molti di noi. Ma è un sogno sofferente, non un incubo, ma quello stato di semiveglia in cui il reale giunge imperfetto, impreciso. Cos’è quel viva vai di forme di vita nascoste da maschere, altri rinchiusi nel manicomio o le nostre pulsioni represse, le nostre proiezioni (quella luce vibrante e intermittente generata da una ventola), i nostri incubi che Goya, Balthus o Fussli hanno ben saputo portare su tela ? Poco importa distinguere il Bianconiglio da Humpty Dumpty, il Cappellaio Matto dal Bruco, le Regine di Cuori o Rossa, la Duchessa o l’Unicorno, o le Alici che si moltiplicano. Sono gli stessi attori ad interpretarli, perché sono le ossessioni che si ripresentano nella stanza buia in cui Alice – e non solo lei – è prigioniera. Reclusa ? O la paura di ciò che di Altro c’è dietro l’imbottituta, che attutisce e insieme protegge, le impedisce di cercare vie di uscita ? Si rannicchia, si ripiega, rotola su se stessa. Cerca un contatto con se stessa, questa Alice di Tarasco. Che costringe il suo quartetto d’attori a performances ginniche scomode e complesse, in cui il suono-parola viene espressa assieme alla tensione fisica. Le gambe, le mani (come la mente) cercano appigli, puntelli momentanei per trascinarsi da qui a un altrove che risulterà altrettanto scomodo e precario. Una parola a tratti poco ‘teatrale’ (un marcato accento siculo, un po’ di pugliese, qualche evocazione napoletana) si mescola a musiche a volte dal sapore minimal, a tratti evocative (i due attori con le dita puntate a mo’ di pistole duettano sulle note della Sarabanda di Haendel – sul tema de La Follia – divenuta popolare in Barry Lindon di Kubrick: in questo avrei optato per una delle mille altre versioni dell’età barocca).
Romina Mondello stupisce per come una bella quarantenne riesca perfettamente a rendere una Alice adolescente, smarrita, a tratti ancora infantile; Salvatore Rancatore alterna registri di buffo, di mellifluo, di perfido, di disincantato, spogliando ognuno di essi di artificiosità; Federica Rosellini e Odette Piscitelli hanno carne rabbia e incanto nella loro carnalità spesso esibita con lo stesso perturbamento che ci giunge dalla scena. Appalusi generosi, convinti, sinceri a fine spettacolo. Matteo Tarasco fa capolino rapidamente, e rapidamente esce di scena. Gesto che sa di timidezza e di generosità assieme.
Sergio Albertini